La “tropicalizzazione” del Mediterraneo, ed esempi del processo in corso.

Introduzione

Il bacino del Mediterraneo, posto tra l’Africa, l’Europa e l’Asia, è collegato all’Oceano Atlantico attraverso lo stretto di Gibilterra ad Ovest, al Mar di Marmora attraverso i Dardanelli, a Nord-Est al Mar Nero e a Sud-Est dal “Canale di Sicilia” al Mar Rosso e all’Oceano Indiano. Il Mediterraneo con la sua peculiare posizione e la variegata storia geologica, come ad esempio l’isolamento durante la crisi del Messiniano che ne ha causato una rapida evaporazione, con il conseguentemente aumento della sua salinità, è considerato un hot-spot di biodiversità. Si tratta di un mare caratterizzato da una ricchezza specifica elevata con un alto tasso di endemismi per unità di superficie, con specie di notevole interesse per la conservazione, come ad esempio le praterie di fanerogame (Posidonia oceanica), i marciapiedi a vermeti (bio-costruzioni create dal gasteropode Dendropoma petraeum), la foca monaca (Monachus monachus), la tartaruga marina (Caretta caretta) e il tonno rosso (Tunnus thynnus).

Cause della  tropicalizzazione

L’ecosistema del Mediterraneo, considerato dagli studiosi un sito di grande interesse per la ricerca tanto da essere definito un “oceano in miniatura” o “laboratorio a cielo aperto”, negli ultimi secoli è stato sottoposto ad una forte pressione antropica: aumento demografico, urbanizzazione delle coste, inquinamento, pesca eccessiva, introduzioni di specie alloctone e frammentazione degli habitat, che ha alterato l’equilibrio degli ecosistemi e causato la successiva perdita di biodiversità. L’ultimo ma non meno importante elemento è il cambiamento climatico, in quanto ha favorito l’insediamento di specie provenienti dalle aree tropicali e sub-tropicali in grado di soppiantare le specie autoctone presenti nell’area.

Conseguenze della  tropicalizzazione

Immigrazione di specie: tra le specie provenienti dal Mar Rosso (specie lessepsiane, 67%), in seguito all’apertura del canale di Suez, troviamo il pesce flauto (Fistularia commersonii), il nudibranco (Melibe fimbriata), nuove specie di triglie, il barracuda (Sphyraena chrysotaenia), e numerosi microalghe planctoniche (dinobionti) tossiche, i quali hanno causato danni anche alla salute umana. Inoltre attraverso lo stretto di Gibilterra si è verificata una massiccia immigrazione di pesci tropicali, provenienti dalle coste africane dell’Oceano Atlantico, fra i quali il pesce palla (Sphoeroides cutaneus), tre specie di ricciole (Seriola fasciata, S. rivoliana, S. carpenteri), una specie appartenente alla famiglia degli Scorpenidi (Scorpaena maderensis), il granchio (Percnon gibbesi) e la lampuga (Coryphaena hippurus). Le specie di origine tropicale e sub-tropicale sono concentrate nel settore meridionale del Mediterraneo, anche se l’aumento della temperatura causato dai cambiamenti climatici, ne influenzano inevitabilmente lo spostamento e la distribuzione anche verso il mare Adriatico e il Mar Tirreno.

Un’ulteriore via di passaggio per le nuove specie è rappresentata dall’importazione di specie esotiche per acquari, come  ad esempio l’alga invasiva Caluerpa taxifolia (fuggita dall’acquario di Monaco), che insieme a Caulerpa racemosa (specie lessepsiana), ha favorito l’omogeneizzazione dei paesaggi e lo spostamento verso le catene alimentari del detrito. Analogo è il caso del pesce siluro e della stella marina Asteria vega che ha soppiantato Asterina gibbosa. Un altro impatto negativo sulla biodiversità è stato causato in passato dall’acquacoltura di molluschi di elevato interesse commerciale quale la vongola orientale Tapes philippinarum, che ha soppiantato completamente la vongola verace mediterranea T. decussatus. Anche gli allevamenti di ostriche rappresentano i canali di passaggio per macrofite “aliene”, ed infine le acque di zavorra delle navi-cisterna, il cui scarico incontrollato nelle acque prelevate dai mari tropicali e non trattate in modo adeguato, hanno costituito un importante veicolo di specie che hanno modificato rapidamente la biodiversità in prossimità dei porti.

Effetti sulla circolazione termoalina e sulle comunità

La perdita della popolazione locale e la contrazione di nicchia delle specie native innescano una perdita di variabilità genetica e una riduzione delle funzionalità dei processi ecosistemici. Unitamente a questi fattori è opportuno considerare anche la circolazione termoalina del Mediterraneo e i possibili effetti dell’innalzamento della temperatura su quest’ultima. La circolazione termoalina è quel percorso mediante il quale l’acqua fredda superficiale, a bassa salinità proveniente dall’Oceano Atlantico, vede aumentare la propria salinità procedendo verso Est, affondando nel Mar Levantino (settore orientale) a causa dell’elevata densità, per circolare nuovamente verso Ovest ed uscire dallo stretto di Gibilterra.

La temperatura delle acque profonde mediterranee non scende mai al disotto dei 12-13°C. Ultimamente questo e altri parametri hanno subito delle variazioni, identificate con l’acronimo E.M.T. (Eastern Mediterranean Transient), causato dal cambiamento dell’idrologia delle acque profonde del settore orientale, infatti le correnti del Mar Ionio invertendosi, hanno modificato i valori di temperatura, salinità e la stratificazione delle masse d’acqua. Sono stati, inoltre, modificati i cicli del carbonio, dell’azoto e i fenomeni di risalita delle acque profonde (upwelling). Si è registrato mediamente un aumento della temperatura delle acque di circa +1,4°C, i cui effetti si sono propagati nel bacino occidentale con influenza sulle acque costiere. Tutto ciò ha comportato un aumento delle specie termo-tolleranti e la scomparsa o diminuzione delle specie stenoterme “fredde”. Notevole è l’esempio del Labride termofilo Thalassoma pavo e del corallo Astroides calycularis, considerate specie meridionali, e recentemente segnalate più a nord in sostituzione delle specie native di acque fredde. Le specie fredde, non potendosi spostare ulteriormente a nord, sono costrette a rifugiarsi in ristretti ambienti, quali baie ed insenature, che godono di apporti di acque fredde e meno salate, impossibilitate a competere e rischiando l’estinzione.

Conclusioni

Per i motivi sopra elencati, piuttosto che parlare di “Tropicalizzazione”, sarebbe bene parlare di “Meridionalizzazione” del bacino del Mediterraneo. Questo non sembra aver ancora acquisito una fisionomia tropicale, infatti è ancora dominato da alghe frondose e non da coralli. Vi sono comunque numerosi organismi biocostruttori, come le alghe coralline, i molluschi vermeti, i policheti serpulidi, i coralli sclerattinidi tra cui Cladocora caespitosa, unica specie nativa che presenta zooxantelle simbionti, e che potrebbe svolgere il ruolo di corallo costruttore, in quanto la sua crescita è correlata alle oscillazioni della temperatura.

Ogni specie presenta un notevole range di tolleranza termica e risponde alle fluttuazioni con adattamenti molecolari, biochimici e fisiologici, tuttavia stress acuti conducono a malattie e mortalità di massa, come nel caso delle gorgonie, delle spugne e dello stesso corallo Cladocora caespitosa, specie, tra l’altro, non vagili. Tali specie subiscono l’attacco di batteri e microrganismi opportunisti, facenti parte del ceppo Vibrio, patogeno dei coralli tropicali, la cui virulenza pare sia stata incrementata proprio dal riscaldamento globale.

La tropicalizzazione ha quindi influenzato tutti i livelli biologici, e gli effetti a cascata inducono cambiamenti dei flussi di materia e di energia all’interno delle reti trofiche. Ne sono un altro esempio le comunità di copepodi che condizionano gli ambienti pelagici e le comunità zooplanctoniche carnivore, che a loro volta controllano le comunità planctoniche. Un innalzamento della temperatura ha condotto alla scomparsa di blooms stagionali di diatomee; le abbondanze dei copepodi si sono dimezzate ed hanno perso, quindi, il ruolo di pompe biologiche del carbonio; infine il proliferare delle meduse ha portato a un aumento della predazione sulle comunità planctoniche. Le variazioni della biomassa planctonica hanno un effetto regolatore (bottom-up) su organismi situati più in alto nella catena alimentare, che se ne nutrono, come ad esempio i pesci pelagici, le acciughe e le sardine, i cui stock hanno subito drastiche variazioni negli ultimi anni soprattutto a causa della pesca eccessiva (overfishing).

Conseguentemente a questi cambiamenti le biocenosi del Mediterraneo potrebbero perdere le loro caratteristiche ed acquisire una struttura totalmente nuova. Il cambiamento climatico non deve essere visto necessariamente come un evento catastrofico, bensì come una “pompa di diversità”. La composizione variegata e flessibile di specie permette agli ecosistemi di mantenere inalterato il loro funzionamento. Ci troveremo davanti scenari che non saranno necessariamente i peggiori, ma risulteranno certamente diversi. Settori come la biogeografia, la tassonomia e la sistematica assumeranno un ruolo fondamentale, poiché mentre la biodiversità del Mediterraneo varia, contemporaneamente è necessaria la conoscenza della diversità stessa. È opportuno monitorare, tra l’altro, ogni area del Mediterraneo, perché il settore orientale fornisce indicazioni future sui cambiamenti che opereranno nel settore occidentale. Tali cambiamenti si verificano naturalmente con cicli di 11-45 anni, per cui occorre un approccio a larga scala e a lungo termine, attuabile ad esempio mediante un network di aree marine protette (AMP).

Il monitoraggio del Mediterraneo potrebbe offrire importanti suggerimenti sull’alterazione a livello globale, ma resterebbe anche da comprendere come i fattori biotici e abiotici interagiscono tra di loro. Promuovendo la ricerca scientifica e avvalendosi di un approccio multidisciplinare è possibile affrontare un problema così complesso come la perdita di biodiversità, cercando di attenuare ove possibile gli effetti devastanti sul corretto funzionamento degli ecosistemi marini.

Fonti:

  • Biodiversity issues for the forthcoming tropical Mediterranean Sea – Carlo Nike Bianchi (2007).

  • The Biodiversity of the Mediterranean Sea: Estimates, Patterns, and Threats – Marta Coll (2010).

Immagini: web

Daniela Lo Presti

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