Il Continente di plastica

Conosciuto anche come Pacific trash vortex o anche Great Pacific garbage patch, questa enorme distesa di rifiuti, costituita prevalentemente da plastica e da materiali non biodegradabili, si è cominciato a formare intorno agli anni ’50, a causa dell’azione delle principali correnti marine che dominano in una zona dell’Oceano Pacifico, andando a circoscrivere un’area di convergenza nota come vortice subtropicale del Nord Pacifico. Al centro di questo vortice si viene a creare una regione di acque stabili e stazionarie al cui centro vanno accumulandosi notevoli quantità di rifiuti e detriti vari. Attualmente la sua estensione non è del tutto nota con precisione, ma si stima che nel corso degli anni si siano accumulati circa 100 milioni di tonnellate di detriti andando a ricoprire circa 700.000 – 10 milioni di Km2 di superficie, un’area più estesa della superficie degli Stati Uniti.

Nel 1988 viene pubblicato dal NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), l’agenzia federale statunitense che si occupa di meteorologia, un documento redatto sui risultati ottenuti da diverse spedizioni di ricercatori che fra il 1985 e il 1988 misurano le aggregazioni di materiali plastici nel nord dell’Oceano Pacifico ipotizzando così l’esistenza di questa isola, che viene scoperta solo il 3 Luglio del 1997 da Charles Moore. Lo studioso dopo aver partecipato ad una regata alle Hawaii, decide di avventurarsi in una zona del pacifico poco trafficata per via dei suoi di venti deboli, per la bassa pressione e per la mancanza di fauna. Queste condizioni, nel tempo, determinano il lento ed incessante accumulo di rifiuti tanto da formare una vera e propria isola galleggiante e quindi una immensa discarica a cielo e mare aperto. Dopo questa scoperta lo stesso Moore fonda l’Algalita Marine Research Foundation, un’associazione con l’obiettivo di trovare una soluzione per cercare un rimedio a questo scempio. L’impatto sull’ambiente e sulla vita degli organismi marini è notevole, i rifiuti di origine biologica sono spontaneamente sottoposti ai processi della biodegradazione, diverso è il destino che seguono tutti quei materiali non biodegradabili. La plastica, tende nel tempo a fotodegradarsi, cioè a rompersi e a separarsi sotto l’azione della radiazione luminosa del sole, in pezzetti via via sempre più piccoli fino a formare delle piccole particelle costituite da polimeri (che compongono la plastica) andando a determinare un forte impatto da inquinamento di PCB o policlorobifenili, una classe di inquinanti persistenti nell’ambiente e con un livello di tossicità, in alcuni casi, pari a quelli della diossina. Queste particelle, che apparentemente somigliano allo zooplancton ingannano le meduse che se ne cibano causandone l’introduzione nella catena alimentare e arrivando fino a noi. Questo fenomeno, che ormai va avanti da molto tempo, dovrebbe farci riflettere sull’uso sconsiderato che facciamo di tutti qui materiali che una volta immessi nell’ambiente vanno ad alterare i delicati equilibri degli ecosistemi sulla quale è basato il nostro Pianeta, noi e la vita.

Matteo Mercurio

Fonti

Video: tratto da “E se domani” andato in onda su RAI 3

Link : http://www.algalita.org/index.php
Immagini: www.greenpeace.org

[banner network=”altervista” size=”300X250″]